Mamme e lavoro: uno studio di Save The Children ci dice quanto ancora siamo indietro
Ci sono una serie di dati su cui vorrei richiamare l’attenzione, e che riguardano la natalità in Italia e la situazione delle mamme lavoratrici. Fabio Mosca, presidente della SIN (Società Italiana di Neonatologia), afferma che “siamo passati dal baby boom degli anni ’60 al baby flop dei nostri giorni” e che la causa principale sia da ricercare nella mancanza di politiche a sostegno delle famiglie e delle donne – madri, per anni sottovalutata e da cui dipende invece il futuro del nostro Paese.
Esagerazione o realtà? Ovviamente la prima. Non solo, l’Italia è anche il Paese delle mamme più “anziane” al momento della nascita del primo figlio che nel 2019 si attestava, in media, a 31,3 anni a fronte di una media europea di 29,4.
Questi numeri ce li fornisce uno studio di Save the Children, che poi si concentra sulla situazione delle donne chiamate a scegliere tra maternità e carriera poiché impossibilitate ad avere entrambe, quasi fossero beni di lusso.
I dati dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro ci dicono che nel 2019 le dimissioni o risoluzioni consensuali del rapporto di lavoro di lavoratori padri e lavoratrici madri hanno riguardato 51.558 persone. Di questi, oltre 7 provvedimenti su 10 riguardavano le donne (37.611, il 72,9%). Con l’avvento della pandemia il fenomeno si è acuito ancora di più. Il 42,6% delle mamme tra i 25 e i 54 anni non è occupata e il 39,2% con due o più figli minori ha un contratto di lavoro part-time. Nel 2020 sono state più di 30mila le donne con figli che hanno rassegnato le dimissioni e nella mappa delle regioni italiane dove essere madri è più o meno semplice, il Nord, neanche a dirlo, è in cima e il Sud in fondo alla classifica.
Perché succede questo? Perché ancora siamo costrette a soggiacere a questi aut aut? Nel 2022 dovrebbe essere roba superata, invece tutti i gap sono ancora lì, timidi segnali di un nuovo Medioevo, che ogni tanto torna di moda come i jeans a vita bassa. Oggi una donna che lavora e che decide di mettere al mondo dei figli o è una privilegiata o è una folle. Se è tra le poche fortunate ad avere un contratto che prevede maternità, congedi, ferie, malattie, permessi e bonus il problema non sussiste, ma questa è l’eccezione. Il più delle volte siamo di fronte a nuclei familiari monoreddito o a professioniste autonome che devono destreggiarsi tra orari poco flessibili, entrate poco certe e uscite più che certe e puntualissime. Le modalità di lavoro, poi, decisamente non permettono di crescere un figlio in scioltezza. Ecco perché spesso la decisione di lasciare il lavoro arriva inesorabile, con tutte le conseguenze del caso. Perché, per quanto si possa essere appagate come madri, comunque si perde l’indipendenza economica come donne.
Si contano sulla punta delle dita di una mano gli esempi di imprenditrici che hanno avuto il coraggio di affrontare questa realtà e trasformarla a proprio vantaggio. E’ il caso di Virginia Scirè, una mamma di due bambini che ha fondato l’azienda WearMe Baby dove tutto è a misura di mamma: orari flessibili, modalità di lavoro ibrida e possibilità di portare i figli a lavoro. Alle 16 si chiude, così resta tutto il tempo per organizzare gli impegni familiari e il tempo libero.
Virginia Scirè è una delle mamme italiane costrette a rinunciare al lavoro per trascorrere del tempo con i figli. Una bella laurea in economia nel cassetto, un ottimo impiego presso un’azienda finanziaria e poi, nel 2008, la gravidanza e le priorità che cambiano, fino a costringerla a fare una scelta. Passano 10 anni e nel 2018 arriva la start up WearMe Baby, non senza problemi e sacrifici.
Ma per una donna che non si è arresa, ce ne sono 100 che lo fanno, ed infatti Save The Children ribattezza l’Italia “il Paese dalle culle vuote”, nel quale vivono e si muovono 6 milioni di madri “equilibriste” che si dividono tra vita familiare e lavorativa, spesso senza alcun supporto. “Anche la lieve ripresa economica dello scorso anno – si legge nello studio – è stata caratterizzata “da ingiustizie di genere”. Solo poco più di un contratto a tempo indeterminato su 10 attivato è a favore delle donne nel primo semestre 2021. Delle 267.775 trasformazioni contrattuali a tempo indeterminato del primo semestre 2021, solo il 38% ha riguardato donne. Se si guarda il numero totale di attivazioni contrattuali (sul totale di tutte le attivazioni) nel primo semestre per le donne (poco più di 1,3 milioni), la maggior parte (38,1%) è a tempo determinato; seguono il lavoro stagionale (17,7%), la somministrazione (15,3%) e, solo per ultimo, l’indeterminato (14,5%). Degli oltre 2 milioni di contratti attivati per gli uomini, quasi la metà (il 44,4%) è a tempo determinato, subito seguito dall’indeterminato (il 18%). Anche i dati sulle convalide delle dimissioni delle lavoratrici madri e dei lavoratori padri di bambini/e di 0-3 parlano chiaro: su 42.377 casi nel 2020, il 77,4% riguarda donne. Le lavoratrici madri rappresentano il 77,2% (30.911) del complesso delle dimissioni volontarie, a fronte delle 9.110 dei padri”.
Come si risolve questo problema? Tra bonus bebè, bonus asilo nido e bonus mamma domani, il Governo sembra voler fare qualche timido passo in avanti, ma di certo l’assistenzialismo non basta. Le madri lavoratrici non vogliono bonifici. Vogliono sapere che il mondo del lavoro non chiuderà loro le porte appena decideranno di metter su famiglia. Vogliono sapere che la vita non sarà resa loro impossibile, vogliono avere la certezza che non arriverà una neo laureata concentrata solo sulla carriera a togliere loro quello per cui a lungo si sono impegnate. Occorrono, insomma, politiche serie a sostegno del mondo del lavoro e la nascita di un sistema parallelo che preveda tutta una serie di tutele per le mamme lavoratrici, e non che le espella in automatico. Altrove questo è già realtà, è la normalità. L’Italia ce la farà mai ad adeguarsi? E soprattutto, ha l’interesse di farlo?
Valentina Frasca – Giornalista