Aborto, diritti e legge 194: in Italia a che punto siamo?
Mi sono imbattuta in un articolo di stampa su corriere.it che, in maniera seria ed articolata, cerca di fare il punto sulla situazione dell’aborto in Italia, sul numero degli obiettori di coscienza, sulle difficoltà che una donna incontra se decide di compiere questo passo e sull’utilizzo della pillola RU 486. Il punto di partenza è uno studio che porta la firma di Chiara Lalli, docente di Medicina e Deontologia alla Sapienza di Roma, e Sonia Montegiove, giornalista e informatica, sono stati pubblicati nel libro inchiesta “Mai Dati. Dati aperti (sulla 194). Perché sono nostri e perché ci servono per scegliere” edito da Fandango.
Troppo facile cadere nei luoghi comuni quando si parla di interruzione di gravidanza, troppo riduttivo schierarsi dalla parte del si o del no, soprattutto se si è uomini. Un po’ più complicato è fare una analisi equilibrata, oggettiva e completa per fotografare lo stato del nostro Paese a distanza di 44 anni dall’introduzione della legge 194 che ha regolarizzato e reso libera e legale la pratica abortiva in Italia.
Tanti sono gli elementi che preoccupano e che ci fanno intuire quanto la nostra Nazione sia indietro rispetto ad altre, in primis la difficoltà ad individuare il numero esatto degli obiettori di coscienza. Nonostante un anno di lavoro, le due autrici non ne sono mai completamente venute a capo, ed è una lacuna gravissima perché si tratta di dati che il Ministero della Salute sarebbe chiamato a fornire tempestivamente e ad aggiornare annualmente e pubblicamente. Invece, così non è, a dimostrazione della gran confusione e della burocrazia che una donna (già alle prese con una situazione estremamente delicata) è costretta ad affrontare se, per le ragioni più svariate, vuole abortire.
Tra le regioni maglia nera spicca il Molise, con un tasso di obiettori che supera il 90% e rende, di fatto, quasi impossibile l’interruzione di gravidanza sul territorio. Non mancano casi emblematici nemmeno in Lazio, Piemonte, Marche, Puglia, Umbria, Sicilia e Campania.
Altra cosa gravissima che emerge dal lavoro di queste due professioniste è che non ci sono dati certi sui tempi di attesa, e questo è un fattore fondamentale visto che la procedura deve essere obbligatoriamente effettuata entro 90 giorni dal concepimento. Un lasso di tempo entro il quale la donna deve anche avere la possibilità di accedere a tutte le informazioni utili a fare una scelta in totale consapevolezza. E se già è difficile per una italiana, figuriamoci quanto possa essere complicato per una straniera, che ha difficoltà a comprendere la lingua o ad accedere al Sistema Sanitario Nazionale. Il rischio che molte donne arrivino a questa decisione senza neanche conoscere le alternative è reale, almeno quanto quello, ancora più grave, di non poter abortire, in assenza di medici disponibili.
Ed è in questo scenario non roseo che si inserisce l’uso della pillola abortiva RU 486, che, secondo le linee guida del Ministero della Salute, può essere erogata in regime ambulatoriale. In realtà, ciò che emerge dall’inchiesta, ancora una volta, è un gran caos in cui ogni regione decide per sé. All’interno di questo labirinto la donna vaga in cerca di una soluzione, tra porte girevole, diti puntati, sguardi accusatori e corridoi che diventano man mano più stretti e soffocanti, fino a dare l’impressione di richiudersi sopra la testa. Del padre, spesso, non c’è neanche l’ombra. Come se la cosa non lo riguardasse, come se le donne si mettessero incinte da sole.
Le figure che emergono da questo studio, dunque, sono donne lasciate sole davanti alla scelta più difficile, ma, paradossalmente, non libere di decidere. Almeno, non alla luce del sole, non serenamente, non senza che qualcuno si prenda la briga di condannarle. Purtroppo, temo che fino a quando non capiremo che questo non è solo un problema morale e/o scientifico, l’Italia del Vaticano e del Popolo della Famiglia, del patriarcato e del salario inferiore nei confronti del genere femminile, non sarà pronta a trattare l’argomento aborto con la serietà che merita.
La legge non basta, se poi le strutture sanitarie non riescono a garantire l’esercizio di questo diritto. E quando c’è addirittura qualcuno che la legge 194 la vorrebbe rimettere in discussione, pensando che le donne non cercheranno rifugio in locali abusivi, mettendosi nelle mani della prima fattucchiera che capita pur di interrompere una gravidanza indesiderata, il nostro Paese sarà senza speranza, in caduta libera verso un nuovo Medioevo. Una nuova era in cui i diritti delle donne vengono dimenticati, tralasciati. Semplicemente, non esistono.
Valentina Frasca – Giornalista